Suoni dal confine: Mirco Salvadori intervista Leandro Pisano per Sherwood.it

September 2017

(only in Italian):

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La musica ci accompagna durante la nostra giornata, accende l’immaginazione, è fonte di suggestioni dolorose o, al contrario, serene. Noi diamo per scontata la sua presenza senza però soffermarci sulla sua vera essenza: il suono. Una componente fondamentale presente nella quotidianità ma che vive e si sviluppa anche ai confini della nostra esperienza uditiva. Esistono dei ricercatori che sanno come riconoscerlo e, soprattutto, sanno descriverlo. Leandro Pisano è uno di questi.

Leandro Pisano o forse dovrei dire Dottor Pisano, dietro il tuo nome si muove un universo di incarichi e iniziative culturali. La tua storia in poche righe, riesci a raccontarla?

È una storia radicata nella provincia del Sud, tra Venosa, in Basilicata, dove ho vissuto gli anni della mia adolescenza e la Valle Caudina, area di confine tra Sannio ed Irpinia e luogo di origine della mia famiglia, in cui ho cominciato a fare esperienza nell’organizzazione di piccoli eventi culturali su scala locale. Tutto ha cambiato improvvisamente prospettiva quando nei primissimi anni del nuovo secolo ho cominciato ad accostarmi alle arti digitali e a una serie di ascolti legati alla ricerca estetica di etichette come Raster-Noton, Rune Grammofon, Touch, Line e 12k ed ad artisti come Alva Noto, Ryoji Ikeda, Fennesz, Pan Sonic, Richard Chartier, Taylor Deupree o Biosphere. L’idea di portare alcuni tra questi artisti a performare nei luoghi rurali in cui vivevamo è stata la scintilla da cui è nato nel 2003 il festival Interferenze, di cui ricorre in queste settimane il quindicesimo anniversario. Da lì sono partite e si sono ramificate tutte le connessioni e le dinamiche che hanno generato un movimento di tipo geografico – da allora abbiamo presentato la nostra ricerca in più di venti stati e tre continenti in giro per il pianeta – e di ricerca, che ha prodotto nel corso degli anni festival, residenze artistiche ed altri tipi di format, fino ad arrivare alla pubblicazione del libro di cui parliamo in questa intervista.

I molti che seguono le vicissitudini legate al suono innovativo ti conoscono come fondatore e art director del ben conosciuto festival “Interferenze”. Come è nata l’idea e come si è sviluppata?

Nata come fascinazione pura rispetto agli ascolti ai quali facevo prima accenno ed alla scoperta di certe sperimentazioni artistiche in campo digitale (la software e la new media art), l’idea di Interferenze è poi stata influenzata in modo decisivo dalla dimensione territoriale del progetto. Rispetto al formato del festival di arti elettroniche, vincolato indissolubilmente – a cavallo tra i due secoli – allo spazio urbano e metropolitano, Interferenze proponeva invece una sorta di displacement, di sconfinamento atipico verso il territorio rurale. A partire dalla riflessione su questa irregolarità, abbiamo pensato che il nostro progetto potesse diventare una sorta di spazio di sperimentazione su temi come la ruralità, la comunità, l’ecologia, in intersezione con i linguaggi e i modelli culturali legati al digitale. Lavorando su questa formula, Interferenze è diventato nel corso del tempo un piccolo caso di studio nella scena internazionale, suscitando la curiosità di curatori, istituzioni ed organizzazioni, il cui interesse si è spinto fino all’invito ad organizzare un’edizione giapponese del festival, tenutasi nel 2010 a Tokyo.

Aggiungiamo un altro tassello. Nella tua bio si legge il termine “curatore”. Spiegaci.

Nel linguaggio dell’arte contemporanea, il termine “curatore” fa tradizionalmente riferimento ad una figura in grado di costruire ed attivare connessioni tra gli artisti, le istituzioni ed il pubblico. Si tratta di un ruolo che agisce, dunque, soprattutto all’interno delle istituzioni museali o delle gallerie ed intorno al quale negli ultimi due decenni è nata una questione relativa al senso stesso della sua presenza all’interno delle dinamiche dell’arte del nuovo millennio. Se penso alla definizione di questo profilo, devo dire che la mia esperienza “curatoriale” ha sovente sconfinato, configurandosi molto spesso come un lavoro in larga parte indipendente, di relazione comunitaria, spesso completamente al di fuori degli spazi e dei contesti istituzionali dell’arte. In generale, nel corso del tempo questa ricerca si è focalizzata sull’idea di territorio declinata come tema e strategia curatoriale. Tema, in riferimento alle modalità con cui insieme agli artisti abbiamo discusso e sviluppato pratiche su questioni come la relazione tra rurale ed urbano, la cartografia, l’identità, la comunità, le dinamiche coloniali; strategia curatoriale, e cioè il tentativo di sviluppare i singoli progetti in stretta relazione e dialogo con il contesto all’interno del quale essi sono stati attivati.

Quali i progetti che più ti hanno coinvolto e perché?

È difficile dare una risposta a questa domanda, nel senso che durante il mio percorso ho avuto la possibilità di lavorare a progetti che avessero sempre un significato preciso in senso strategico rispetto alla linea curatoriale e di ricerca che andavo sviluppando. Così, il livello di coinvolgimento è stato sempre alto, sia nel caso in cui mi sia trovato a lavorare a budget zero in progetti indipendenti e di scala molto piccola, come è spesso accaduto negli ultimi anni, sia quando si è trattato di collaborare con istituzioni museali riconosciute, come nel caso della mostra sulla sound art cilena che ho curato al MACRO di Roma insieme ad Antonio Arévalo poche settimane fa.

Gran parte del tuo lavoro lo svolgi all’estero, america latina in particolare. Come è nata questa relazione geografica, un’altra ennesima fuga dalla nostra penisola o una scelta dovuta ad altro?

Una delle questioni attorno alle quali si è articolata la mia ricerca di dottorato è proprio quella relativa alle voci degli artisti sonori provenienti dal Sud del mondo e in senso specifico dall’America del Sud. Nei miei viaggi di ricerca precedenti, dall’Europa agli Stati Uniti al Canada, fino al Giappone, ad Hong Kong e alla Corea, non avevo percepito tracce di connessioni o intersezioni con lavori o contributi di artisti sonori provenienti dall’area sudamericana, sia nelle sedi accademiche che nei contesti di presentazione tradizionali (gallerie, musei, festival). È da questa domanda che è nato un rapporto sempre più profondo di scambio e ricerca con quest’area, che si è sviluppato attraverso viaggi, incontri con artisti e curatori, collaborazioni con alcune istituzioni accademiche, la mostra al MACRO di cui dicevo prima e l’invito a sette artisti di stanza in Colombia, Cile, Uruguay e Peru a prendere parte alle residenze di Liminaria negli ultimi tre anni. Altri progetti sono in cantiere: la traduzione del mio libro in spagnolo da parte di una casa editrice cilena, con pubblicazione e distribuzione in tutta l’area latinoamericana e la partecipazione ad un programma speciale all’interno del progetto Encuentro Lumen nella Patagonia cilena, al quale parteciperò come curatore invitato nel novembre 2018. In generale, al di là dell’interesse specifico per le pratiche e le riflessioni intorno al suono in area latinoamericana, mi interessa continuare a costruire questo tipo di connessioni in virtù anche dello sviluppo futuribile di una ricerca “da Sud”, anzitutto in senso epistemologico. Proprio in quest’ottica di intersezione relativa alle geografie critiche sul Sud, stiamo lavorando per esempio per portare Liminaria l’anno prossimo in Sicilia, aggiungendo un ulteriore livello alla ricerca “acustemologica” su spazi, territori e paesaggi delle aree mediterranee.

Veniamo al suono, qual è il tuo rapporto con questo elemento e come si è trasformato nel corso del tempo?

Partirei da un dato importante: il mio interesse intorno al suono non si è combinato ad alcun tipo di percorso di formazione “tecnica”, nel senso che non ho studiato come musicista, non sono un artista sonoro né un musicologo. Il mio approccio alla materia è stato mediato dai cultural studies e da altri tipi di letture trans-disciplinari, penso ai new media studies, alla filosofia, alla geografia critica. È una ricerca supportata da un lavoro di pratiche immersive nel suono stesso, tramite due tipi di esperienze: quella curatoriale e quella dell’ascolto riflesso attraverso la critica musicale in senso stretto, legata alla collaborazione con Blow-Up, cominciata nel 2007 e terminata poche settimane fa. L’avvicinamento alle arti sonore parte da lì, dall’ascolto di una serie di lavori di sperimentazione elettronica, per trovare definizione poi negli ultimi anni in un interesse sempre più orientato al suono come elemento materiale nei processi politici, culturali e dell’arte contemporanea.

A tal proposito mi piacerebbe sentire due parole anche sul progetto che condividi assieme ad Enrico Coniglio con l’etichetta digitale Galaverna. Una domanda che mi serve per entrare in un’area ben specifica.

Galaverna è una piattaforma di produzione di lavori sonori e visuali, nata nel 2012 dal tentativo di tradurre in un progetto una visione condivisa con Enrico intorno ad una serie di elementi estetici ed etici relativi alla produzione ed alla distribuzione di contenuti digitali. In questo senso, richiamarsi a teorie come quella del post-digitale o della decrescita ha rappresentato un modo per attivare insieme agli artisti una riflessione critica rispetto a certe modalità di creazione e diffusione di artefatti digitali nel mercato. Ma il modificarsi rapido dei contesti di riferimento, sia per quanto concerne i processi che le modalità di distribuzione e fruizione dei contenuti, ci ha recentemente posti di fronte ad una serie di interrogativi sul senso stesso del lavoro che stiamo facendo con Galaverna. L’esito di questa riflessione porterà nei prossimi mesi ad una serie di cambiamenti di direzione e di struttura del progetto, di cui stiamo al momento discutendo insieme ad Enrico.

Leandro Pisano e il paesaggio sonoro come nuova esperienza capace di contenere più realtà culturali, compresa ovviamente quella sonora. Come spiegare ad un pubblico abituato a proposte musicali tradizionali questa nuova forma di comunicazione.

Il concetto di soundscape, “paesaggio sonoro”, nato alla fine degli anni Sessanta dello scorso secolo in seno alle ricerche di Murray Schafer e della sua scuola, è stato oggetto negli ultimi anni di una serie di riletture critiche, che ne hanno messo in discussione non solo la nozione originaria di semplice ambiente acustico naturale, che comprende i suoni delle forze umane e non umane nel contesto naturale, ma anche la sua connotazione in senso musicale, come elemento talvolta armonico, per esempio nel caso di alcuni soundscape rurali. Quello che trovo particolarmente interessante in queste recenti riletture è la possibilità di ricollocare il paesaggio sonoro nel dinamismo degli spazi acustico-mediali della contemporaneità e di definire, attraverso di esso, dei percorsi che mettano in discussione il punto di ascolto antropocentrico. In questo rimescolamento di prospettiva, ogni tipo di gerarchizzazione dell’ascolto – mi riferisco a paesaggi sonori ad alta o bassa fedeltà ed in generale ad un approccio musicale più o meno colto – viene messa in questione. Dall’altra parte, la stessa radice etimologica del termine connota il suono come elemento contiguo alla sfera visuale, attivando una molteplicità di riferimenti sensoriali e culturali che lo rivelano come contesto complesso e dinamico. In questo senso, è proprio a partire dal concetto di soundscape che si può rintracciare la possibilità di accostarsi al paesaggio, in senso lato, attraverso i suoi livelli di multisensorialità ed invisibilità.

Giungo alla parte centrale di questa intervista, dedicata al tuo libro, “Nuove Geografie del Suono – Spazi e Territori nell’Epoca Postdigitale”, da molti considerato come testo illuminante per meglio comprendere i cambiamenti in atto a livello territoriale e paesaggistico. Come sei giunto a tale pubblicazione, cosa ti ha spinto a farlo?

Nel libro converge integralmente il testo, opportunamente rivisto ed aggiornato, della dissertazione dottorale in Studi culturali e postcoloniali del mondo anglofono che ho difeso presso l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” lo scorso anno. L’esperienza del dottorato ha rappresentato la possibilità di dare una sistemazione accademica alla ricerca indipendente svolta a lungo negli anni precedenti e mi ha fornito una serie di elementi metodologici ed epistemologici che hanno sostanziato la mia prospettiva di studio dandole, appunto, una cornice teorica più solida. All’interno di questo framework di ricerca, ho avuto modo di sviluppare una ricerca legata al suono inteso come strumento di indagine per comprendere quelle che sono le trasformazioni territoriali a cui stiamo assistendo negli ultimi anni, in seguito all’avvento delle nuove tecnologie di comunicazione e dei processi legati alla globalizzazione. In questo senso, il suono diventa un elemento di analisi di indagine di dinamiche invisibili, impercettibili spesso allo sguardo.

Domanda iniziale che i molti non introdotti si pongono: il paesaggio e il suono, due realtà (solo) apparentemente separate, diverse, lontane. Come interagiscono e cosa possono produrre?

Credo di aver risposto in buona parte alla questione già in precedenza. Come dicevo, la radice del termine paesaggio sonoro/soundscape fa riferimento ad un contesto visualista nell’ambito del quale si articola la presenza del suono. In questo senso, paesaggio/paysage, come “ciò che si vede di…”, e suono costituiscono cioè i poli di tensione di un dualismo, quello visione/ascolto, che tende a sussumere il suono stesso nella sfera visuale. Riconsiderare in senso critico la nozione di paesaggio sonoro apre il campo ad un riequilibrio sensoriale – penso per esempio a quanto siano stati illuminanti in tal senso gli studi di Michel Serres – che parte dalla riconfigurazione del ruolo del suono all’interno del contesto del paesaggio. Questo processo implica anche una possibile riconsiderazione del lessico tradizionalmente adoperato dai sound studies, in relazione per esempio all’uso di soundscape o “ecologia acustica”, che richiede – a mio parere – non l’abbandono verso nuove terminologie, ma piuttosto un rinnovamento linguistico che passa attraverso un processo di riflessione e di rilettura concettuale.

Visto da fuori, sembra un’operazione, un progetto destinato ad un pubblico abituato al linguaggio cattedratico. Il libro stesso non è di facile consultazione per chi non possiede gli strumenti necessari. Ti sei posto il problema della semplificazione del messaggio durante la stesura del testo? A chi è rivolto il tuo lavoro?

Il libro è diviso tre capitoli e solo il primo, che pone le basi teoriche per il resto della trattazione, può essere ostico alla lettura per chi non è addentro ai temi del suono in senso stretto, ma è in ogni caso essenziale perché va a colmare, almeno nelle intenzioni, un vuoto bibliografico esistente in Italia su certi argomenti. Gli altri due capitoli sono decisamente più scorrevoli: in generale penso che questo libro, nell’attraversare tramite il suono territori trans- ed interdisciplinari – dalla filosofia alla geografia, dall’antropologia agli studi culturali – possa riscontrare attenzione da parte di lettori che hanno background, interessi, vocazione e provenienze disparate.

Si pronuncia poco la parola Musica, in queste pagine. Si preferisce usare il termine Suono o meglio, Sound Art. Cerchiamo di spiegare la diversità tra le due esperienze: musica e sound art.

In realtà i due elementi, quello musicale/musicologico e quello della sound art non vengono presentati mai in modo antitetico all’interno della trattazione, quanto piuttosto in tensione tra di loro, con l’idea di non mettere in opposizione due domini disciplinari differenti, nel tentativo di ibridarli per arricchire ciascuno di essi di questioni, prospettive ed approdi nuovi o inattesi. D’altra parte, è vero che una delle riflessioni da cui muove il libro è la possibile messa in discussione dello status minoritario della sound art rispetto alla musica e del suo ruolo di appendice nel dominio delle arti visuali. Questo lavoro di decostruzione poggia dunque su un’ipotesi di allargamento del campo di indagine del sound studies, in un’ottica che libera il suono da ogni subalternità disciplinare nei confronti della musicologia, producendo una moltiplicazione dei livelli di contatto ed intersezione del suono stesso con altre discipline: la filosofia, prima di tutto. È questo uno dei punti più delicati del libro, quello che più ha suscitato discussioni, affrontate in maniera serrata con alcuni musicologi nel corso delle diverse presentazioni in giro per l’Italia nelle scorse settimane. L’idea è quella dell’affermazione della possibilità di un ascolto altro, al di fuori delle coordinate e delle articolazioni musicali, soprattutto quelle della musica ‘colta’.

Può il termine soundscape esser la risposta alla crescente mancanza di innovazione in campo musicale? Potrà contribuire a risollevare la stanchezza nell’ascolto percepita dai più attenti fruitori di innovazione sonora?

Non so. Credo si tratti alla fine poi di percorsi, di traiettorie d’ascolto molto personali. Per quanto mi riguarda, proprio la stanchezza verso un certo tipo di proposte che invece mi avevano entusiasmato negli ultimi due decenni, insieme naturalmente ad un interesse specifico e crescente per alcune pratiche estetiche maturato – per così dire – sul campo, mi hanno spinto sempre di più verso “altri” tipi di territori.

Tornando alle tue pagine, esattamente alla 160, si legge: “Il sound artist non si appropria della comunità politicamente o simbolicamente ma, servendosi della forza concreta del suono, contribuisce alla ’liberazione’ del paesaggio sonoro della comunità, insieme ad essa, rendendolo spazio attivo al di fuori dalla rappresentazione, dalla referenza, dalle verità oggettive e lo articola come un ambiente fluido (…) nel quale è possibile inscrivere nuove storie, nuove narrazioni, che rimettono in circolo attraverso le pratiche del suono e dell’ascolto elementi già esistenti ed in circolazione nel paesaggio stesso”. Credo che questo passaggio tratto dal capitolo dedicato agli spazi sonori della ruralità, racchiuda gran parte delle intenzioni progettuali legate a questa ancora nuova modalità di ascolto. Potresti tradurre concretamente quanto scritto?

Queste righe sono estrapolate da una riflessione ampia, oggetto di trattazione del terzo capitolo, che riguarda le dinamiche di interazione tra comunità ed artisti sonori, con riferimento specifico ad una serie di pratiche sviluppate nelle aree rurali ed analizzate nel volume. Il punto di partenza è la possibilità di considerare il territorio rurale stesso come un laboratorio culturale in cui riassemblare, attraverso questa interazione, pratiche ed elementi culturali che sono già esistenti. Non più luogo nostalgico, il territorio rurale emerge, attraverso le pratiche dell’arte (sonora) e di un ascolto “profondo”, come uno spazio critico in cui mettere in questione il significato di termini come “comunità” o “identità” ed individuare nuove modalità di traduzione anche rispetto alle tradizioni. L’incontro tra artisti e comunità, attraverso processi temporanei e imprevedibili di traduzione, lascia riaffiorare frammenti di un passato che si apre alle voci ed alle risonanze del presente, alimentando un processo nel quale, a partire dalla rielaborazione dell’attuale, si può re-immaginare il territorio come un “paesaggio diverso”, al di fuori dei luoghi comuni di una ruralità ereditata e posta ai margini dai discorsi della modernità. Ascoltare, in questo senso, prelude alla possibilità di “riguardare” il proprio territorio con occhi diversi, adoperando una metafora usata da Franco Cassano.

Un altro passaggio che ho trovato interessante è quello riguardante il sound mapping e il field recording in relazione a forme di ascolto legate alla consapevolezza di classe. Amerei una tua spiegazione.

Più che di consapevolezza di classe, io parlerei di subalternità e differenze. Come ha scritto Chantal Mouffe, il suono ci mette di fronte all’“ineradicabilità” delle differenze. Lo spazio uditivo, in quanto libero da frontiere in senso visuale, si rivela come un ambiente particolarmente produttivo nel quale pensare alle identificazioni ed alle disarticolazioni culturali – non solo nei discorsi orali e musicali, ma anche nel più ampio contesto del paesaggio sonoro in cui siamo immersi. Al di là di un approccio puramente musicale, la cultura del suono, considerata nel senso più ampio possibile del termine, può potenziare le relazioni inter-culturali, favorire incontri e forme di traduzione culturale, configurare le pratiche di attraversamento dei confini, contribuire a ridefinire i discorsi sul genere, la razza e la differenza e dando nuovo significato a concetti come “identità” e “comunità”.

La suddivisione che fai tra i ’luoghi abbandonati del suono’ e ’gli spazi sonori della ruralità’. mi ha particolarmente interessato. Ti ascoltiamo.

Più che una suddivisione, si tratta – di nuovo – di un attraversamento di geografie e dei territori che emergono dal contesto post-globale: aree rurali, luoghi abbandonati, zone ai margini affiorano attraverso modalità di ascolto e pratiche artistiche che le rivelano come spazi “aumentati”, sia dal punto di vista sensoriale che delle risonanze del pensiero. In questo senso, il suono non è semplicemente un linguaggio o uno strumento, ma piuttosto un metodo ed un dispositivo di indagine che invita a riconsiderare l’esperienza e la conoscenza dei luoghi secondo modalità differenti rispetto a quelle mediate dalle categorie del pensiero della modernità. Quanto ai luoghi abbandonati del suono, e cioè quelli che rientrano nel Terzo Paesaggio Sonoro ed agli spazi sonori della ruralità, essi vengono letti come ambienti di conflittualità e problematicità riverberata sul territorio e nello spazio sociale. L’ascolto, all’interno di essi, rende udibile tutto ciò che è invisibile, assente, intangibile, residuale in una sorta di geografia delle rovine: in questo senso, l’attraversamento sonoro palesa un’attenzione “ecologica”, o “ecosofica”, nel momento dell’incontro con il territorio.

Esiste una componente utopica all’interno di questo pensiero o, anche in base alla tua notevole esperienza sul campo, hai assistito a reali cambiamenti o per ora si tratta solo di enunciazioni?

Credo che l’impatto di questo tipo di pratiche e riflessioni sia legato ad una serie di questioni, che sono alla base dell’analisi su cui si costruisce il mio libro: è possibile che le pratiche artistiche sonore producano in qualche modo tensioni “agonistiche” rispetto alle forme egemoniche di soggettivazione, mettendo in discussione le dinamiche di dominazione? Possono aiutarci a rendere percepibili “altre” posizioni, nel momento in cui ci costringono a pensare e a sentire, a continuare ad apprendere? Se la risposta a queste domande è affermativa, allora possiamo, come scrive Owen Hatherley, “cercare di scavare l’utopia”.

Dovessi riassumere illustrando fisicamente la materia, che suoni intesi come supporti discografici e altre letture ci proporresti?

Cinque lavori discografici:
Chris Watson, “El Tren Fantasma”, Touch (2011);
Angus Carlyle & Rupert Cox, “Air Pressure”, Gruenrekorder (2012);
Budhaditya Chattopadhyay, “Landscape In Metamorphoses”, Gruenrekorder (2007);
Peter Cusack, “Sounds from Dangerous Places”, ReR Megacorp (2012);
Francisco López, “Wind (Patagonia)”, and/OAR (2007).

Cinque libri:
Salomé Voegelin, Sonic Possible Worlds, Bloomsbury, London/New York 2014;
Anja Kanngieser, Experimental Politics and the Making of Worlds, Ashgate, Farnham 2013;
Brandon LaBelle, Acoustic Territories. Sound Culture and Everyday Life, Continuum New York, NY 2010;
Gilles Clément, Manifeste pour le Tiers paysage, Éditions Sujet/Objet, Paris 2004;
Franco Farinelli, La crisi della ragione cartografica, Einaudi, Torino 2003.

Chiudo con una domanda “filosofica”: cos’è per Leandro Pisano l’esperienza d’ascolto?

Semplicemente, l’esperienza dell’ascolto è un atto di contatto e di immersione nel mondo ed allo stesso tempo un atto di affermazione su più livelli: culturale, sociale, politico.